“[…] né dolcezza di figlio, né la pietà
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincere potero dentro me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, [..]”.
Dante, Inferno, vv. 94-98 (Canto XXVI).
Grande partecipazione di pubblico, martedì 4 giugno, per la lectio magistralis del prof. Massimo Cacciari (Università San Raffaele di Milano) sul tema “I grandi miti dell’Europa”, conferenza promossa dall’associazione Energheia all’interno dell’Aula Magna del campus universitario Unibas di Matera.
Ragazzi, adulti, docenti e semplici appassionati hanno ascoltato con viva partecipazione la dissertazione dell’insigne filosofo veneziano su uno degli argomenti più corroboranti degli ultimi tempi, influenzato anche dagli attuali sviluppi della situazione politica internazionale: i miti europei.


Grazie a una proprietà dialettica non comune, in grado di abbinare a una profonda preparazione intellettuale, un’abilissima capacità oratoria, chiara e ricca di contenuti, il filosofo ha condotto il suo uditorio attraverso un viaggio suggestivo nelle più importanti narrazioni mitologiche del continente europeo.
Un luogo caratterizzato da profonde incertezze e insicurezze, la cui inquietudine politico-sociale pervade da sempre le nostre vite, fin dai tempi della grecità classica. Tuttavia, prima di capire se esista o meno un mito comune agli stati che lo compongono, è necessario risalire all’etimologia della parola “mito”, per coglierne il vero significato.
Secondo Cacciari, il mito è un discorso, una narrazione che fonda un ethos (la sede comune dove risiedono uomini appartenenti a una determinata tipologia sociale), una parola che nel mondo greco era intimamente legata al termine mythos, fino alla loro simbiotica coincidenza linguistica. Su questa fusione, Greci e Romani fondarono la loro Storia e si riconoscevano in un’identità precisa.


Discorso che non può essere fatto per l’Europa, la quale affonda le sue radici sì, nell’impero romano (un ruolo centrale lo assume il suo diritto) e nel mondo greco, ma anche e soprattutto nella cristianità e nelle sue città. Luoghi da intendersi come veri e propri organismi in continua crescita, quasi dei mondi in miniatura, sull’esempio della tradizione urbanistica d’età ellenistica.
Se in età romano-classica, dopo una guerra, si tendeva a stipulare un foedus, un patto fra vincitori e vinti che sanciva una certa appartenenza a un’etica comune fondata su un mito condiviso, per l’Europa il discorso è diverso. Essa ha infatti prodotto solo narrazioni, ponendosi all’interno di una sorta di multiverso in cui ogni nazione si fraintende l’una con l’altra mantenendo una propria identità.
Loci communes, topoi, dove si producono invenzioni narrative, mitologie che ruotano, fin dal loro primigenio sviluppo, attorno al tema del viaggio di ritorno, accentuando una tendenza alla ciclicità delle azioni umane che vogliono ritornare sempre alle origini. I miti europei sono una nostalgia dell’andare oltre verso un luogo che non esiste e che non ha niente a che vedere con ciò che si è abbandonato.
Sono anti-sedes, non portano a qualcosa di definitivo ma si nutrono di una sete insaziabile di conoscenza. Ecco perché, se dovessimo rintracciare una narrazione europea comune, quella risiederebbe nella Commedia dantesca, in particolare nel Canto XXVI, i cui versi custodiscono l’ultimo viaggio di Ulisse, il pellegrino dantesco per antonomasia.
Un personaggio che coincide con la vicenda personale del suo creatore, il quale protrae la sua esperienza conoscitiva fino all’Empireo (fino a ciò che non ha a che fare con l’inizio). Una meta inesistente da cui comincia l’avventura del Dante profeta, l’essenza letteraria e poetica a partire dalla quale l’Europa, a mio avviso, potrebbe attingere per mitigare le sue ragionevoli differenze storiche.
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