“Arcano è tutto/fuorché il nostro dolor”, vv. 46-47,
Giacomo Leopardi – Ultimo canto di Saffo.
Entrare a Père-Lachaise è un’esperienza adatta all’essenziale. Le parole, i passi, gli sguardi. il silenzio. Ognuno di loro sa che, percorrendo le strade del cimitero, non può che contrarsi ancor di più abbagliato dal monumentale raccoglimento che pervade ogni sepoltura o cappella, lasciate alla cura di un tempo incostante, rabbioso, sferzante.
Negli angusti spazi che delimitano i confini fra una lapide e un’altra, calpestando il graffiante stridio delle foglie cadute dagli alberi nei piccolissimi anfratti che si percorrono attraversando le varie tombe, si è come incantati da qualcosa di sfuggente e impenetrabile, difficile da definire.



Una dimensione che non basta affidare al semplice desiderio di raccoglimento. In questo posto pieno di persone comuni ed illustri, Parigi ritrova la pace che non manifesta nella vita caotica di tutti i giorni. È come se un’altra città si manifestasse mantenendo sempre la stessa essenza. Parigi trasla in Père-Lachaise le sue inquietudini affidandole alla contemplazione del ricordo.
E in questa domenica plumbea di inizio marzo l’impressione è più nitida e severa. Commuoversi osservando le tante sculture che spadroneggiano nei vari monumenti funebri, guardarle consumarsi a poco a poco con il passare del tempo, fa intendere quanto sia fugace contenere il flusso della vita, violenta e furente, incapace di arrestarsi.


La sottile discrezione con cui, timidi, si affrontano nomi come Amedeo Modigliani, Edith Piaf, Guillaume Apollinaire, Jim Morrison e tanti altri, frana di fronte all’orizzonte grigio di un cielo a metà fra il nostalgico e il materno, in grado di proteggere dall’alto le anime di una città (e di un mondo) indaffarate a dare un senso a ciò che le circondava.
Come noi, come chiunque.
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