Articolo sulle stagioni della letteratura. Lo scorrere del tempo nei ritmi delle parole: la poesia di Pierluigi Cappello e l’autunno.
Ci sono libri ed autori che hanno il sapore del trascorrere delle stagioni. Sono convinto che ogni scrittore, infatti, possieda un legame invisibile con i ritmi della natura, fondendosi in essa al di là delle tematiche presenti in un’opera. Si tratta di una simbiosi silenziosa, che ognuno di noi coglie quando si trova di fronte un qualsiasi scritto, che in quell’istante diventa pioggia, sole, vento. Sono le stagioni della letteratura, periodi in cui si avverte lo scorrere del tempo nei ritmi delle parole: la poesia di Pierluigi Cappello e l’autunno, ad esempio. Entrambi uniti in un unico sentire.
Le stagioni della letteratura
Cappello era il poeta della discrezione appartenente al gusto per le piccole cose. I suoi versi raccontano un microcosmo friulano fatto di fatica e polvere, dove ogni dettaglio è curato con cura, attenzione e passione, perché simbolo di un’identità. I suoi versi cadono come la pioggia di ottobre sulle strade delle nostre città. A volte silenziosa, a volte irruenta. Ma sempre lasciando che la violenza della natura si stemperi man mano nella voglia di raccontarla con grazia e profondo legame con le proprie radici.
Stessa cosa fa l’autunno che con leggerezza trasforma i colori accecanti dell’estate appena passata in miti sfumature, facendo ingiallire le foglie degli alberi e lasciando che i cieli si oscurino tenendo in ombra quel sole che fino a pochi mesi prima aveva bruciato i corpi e la terra. Proprio quest’ultima è alla base della poetica di Cappello. Il legame con le cose reali, che cambiano o rimangono le stesse per dare sicurezza alle nostre vite e farle sentire parte di qualcosa di più grande fino a un senso di smarrimento esistenziale (“[…] la pioggia il vento il pettine che spettina / i campi spopolati dalle stoppie / e io rimasto spopolato dentro […]”).
O lo svegliarsi incredulo davanti al proseguire irrefrenabile della realtà quando “Ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse / mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto / dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita / in mezzo a un panorama di pietre sparse e tegole rotte”. In questa poesia costruita sui calcinacci di un mondo quasi alla fine dei tempi, avverto lo spaesamento che si prova quando l’autunno ci coglie alla sprovvista sferzandoci il viso con un vento tagliente che anticipa l’irruenza caotica di quello invernale. Un vento che ci spinge nuovamente su un vuoto interiore nonostante i nostri sforzi per riempirlo.
La natura ha questa capacità di farci sentire allo stesso tempo partecipi ed estranei ad essa, figli adottivi del suo esserci nonostante tutto. Per questo la stagione autunnale ci traghetta piano piano, lasciandoci la facoltà di assaporarla e di rinnegarla allo stesso tempo. Un rapporto di odi et amo che appartiene sia al tempo che “[…] si è diviso grano a grano / a passi lunghi nel buio […]“, dove “[…] le cose rimangono cose nel giorno senza nome / […] come un pensiero non detto […]”, che ovviamente alle stagioni della letteratura.
I libri sono custodi anche di un simile immaginario. La loro forza trascende le regole del linguaggio per costruire ponti di senso fatti di anime e sensazioni che si riflettono nel trascorrere degli anni e dei ritmi della natura. Soprattutto, questa è una prerogativa della poesia che, come nessun altra forma espressiva, parla alla parte più nascosta che abbiamo: quella che cerca, nella vita, una possibile ma difficile armonia con tutto il Creato.
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