Cesare Pavese: lo scrittore, l’uomo e la letteratura tra inquietudine e radici, nella ruvida parola.
Cesare Pavese è ancora vivo a 70 anni dalla morte. Da ragazzo ho letto molti suoi libri, da giovane adulto spero di leggerne ancora di più. Pavese è uno di quegli scrittori che ti si conficcano nell’anima e nella mente, senza mai lasciarti. Non è facile interpretare le sue parole, si tratta il più delle volte di una scrittura che fa a pugni con la sofferenza di chi la esprime. Perché, sarà banale ripeterlo, è dal dolore che nasce la vera arte. Pavese è il simbolo di una narrativa legata alla terra ma proiettata verso un cielo del quale lui stesso faceva fatica a capire i misteri. È tutto qui Cesare Pavese: inquietudine e radici, nella ruvida parola.
Non riesco a dimenticare il giorno in cui presi La bella estate. Notato per caso in uno di quei piccoli mercatini di provincia, dove Cicerone convive con i ricettari più vari e Hegel si confronta con le edizioni più datate dei fumetti di Tex. Li adoro. Questi piccoli luoghi di aggregazione sono il risultato di passione personale e gusto per le edizioni ormai perdute nella polvere del tempo. In questa luce letteraria senza storia, trovai il testo. Piccolissimo, esile, di una consistenza leggera come il flebile vento che quella mattina mi baciava il viso. L’avevo in mente da parecchio ma fu esso a trovare me.
Ne La bella estate, così come ne La casa in collina o in quello che reputo il suo libro più bello, La luna e i falò, troviamo uno scrittore moderno, forse anche troppo per la sua epoca, capace di entrare in pieno dentro le problematiche esistenziali più all’avanguardia rispetto all’apparente conservatorismo dei costumi che imperversava quando scriveva. Soprattutto, Pavese è fra quei pochi autori in grado di testimoniare la voce delle donne con talento ed empatia. Nel tratteggiarne i desideri e le contraddizioni è impareggiabile, cogliendone quell’alone di incomprensibile bellezza che dà a loro fascino e seduzione.
Oltre allo sguardo femminile, Pavese descrive la necessità di pensare e ripensare le proprie tradizioni. Lo fa senza retorica, costruendo viaggi in memorie che hanno conosciuto la guerra e non sanno più ricomporre la loro anima lacerata se non ritornando indietro, al principio delle loro vite. La luna e i falò è l’ammissione che senza le radici, senza il mito e le storie che vi stanno alla base e che ci consentono di progettare un futuro di cui non sappiamo nulla se non l’idea di volerlo costruire, saremmo persi.
A Pavese devo la capacità di farmi sentire l’odore della terra, il calore del sole quando la scalda, i silenzi che la circonda quando i rumori finiscono e gli occhi dei suoi personaggi cercano un cielo pieno di senso per le loro vite. Non si tratta di passatismo o gusto per qualcosa di nostalgico, Pavese racconta la determinazione nel voler essere qualcuno se non scavando alle origini della vita che ci ha fatto nascere, la stessa che non riusciva a sopportare e che lo ha portato verso il rifiuto finale. Tragico e liberatorio al tempo stesso.
Di questi 70 anni senza il suo talento non resta che stare in ascolto delle sue parole, senza mai stancarsi. I libri di Pavese dominano la letteratura italiana (e non solo) con la forza dei classici intramontabili. Sono libri che a una prima lettura possono risultare ostici per il linguaggio che non lascia spazio a semplificazioni, molto privato, “pavesiano”, da interpretare con pazienza. Nel momento in cui accade, però, si viene illuminati senza riuscire a fuggire dalla luminosità della messaggio che contiene. Tragico e reale. Incline ad abbracciare la vita per, se necessario, allontanarsene.
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