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La scuola e il racconto della fine di un anno

La scuola

Ed eccomi qui, dentro la scuola che mi ha ospitato per quest’anno. Mi chiedo quanto durerà il vuoto di queste sedie che vedo al mattino così sole, mentre la campanella sta per suonare, prima che vengano occupate dalla presenza dei ragazzi. Siamo tornati in classe da ormai qualche settimana. I ritmi stanno riprendendo ad essere quelli normali seppur dettati dalla pandemia. Ma cosa c’è di davvero normale in tutta questa situazione? Non serve far finta di nulla, è chiaro che il lavoro aiuta a dimenticare questa sospensione del nostro essere pienamente umani. La nasconde. Fino a quando? Loro i ragazzi, lo sanno. i più sensibili ne avvertono il peso, lo portano con sé mentre si siedono su queste sedie che cercano di dividere, distanziare, allontanare.

Ma ormai ci siamo. Un anno scolastico sta per finire. Ed è stata dura anche questa volta consentire un minimo di normalità didattica fra chiusure, riaperture e DaD. La scuola si trova, né più né meno, in una trincea scavata nei solchi delle nostre rispettive solitudini. Un mondo complicato a causa della distanza, che rende la partecipazione emotiva alle lezioni più povera, meno complice, scandita dai ritmi di un automatismo tecnologico in cui gli occhi non si cercano per ritrovarsi a discutere pienamente su un concetto o un argomento. Per viverlo insieme.

Già, vivere. D’ora in poi dovremmo ridare un nuovo significato a questa parola. Un termine che racchiude tutto ciò che siamo e che potremmo essere. Sì, ma ora? Che significato potrà mai avere davanti a tutte queste morti e ad una società che stenta a rialzarsi, messa al tappeto e claudicante, dalla pandemia? Li guardo con attenzione. Il viso coperto dalle loro mascherine, divisi dai banchi a rotelle. Non sono rimasti che gli occhi, al di là dei volti. E forse è un bene perché è da essi che si diffonde gran parte della nostra personalità. Alcuni hanno l’orizzonte spento, quasi stanco; altri, cercano una luce, la scintilla che li riporti ad essere semplicemente dei ragazzi della loro età.

La scuola

La verità è che siamo tutti stanchi. Me compreso. Le preoccupazioni, le paure irrazionali, l’ossessiva attenzione verso l’Altro ormai visto come un possibile pericolo. Da scansare ogni volta che ci appare davanti. Com’è possibile riamare se stessi e gli altri quando la vita avanza zoppicando, martoriata da un virus che sembra non avere tregua? E poi ci sono i programmi, certo. La scuola si basa su di essi, non può farne a meno. L’inquieto Petrarca, il mondano Boccaccio, la maestosità di Dante. Ha senso parlare di loro? Oggi che tutto appare effimero e certi contenuti sono ormai il simbolo di un mondo che deve essere rifondato su nuove basi? Quali, poi?

Mi chiedo spesso, guadandoli, se abbia senso tutto questo. Se sia necessario fornir loro nozioni e concetti, se il mio lavoro possa permettere di riaccendere un interesse verso temi così lontani, distanti. Il tempo, fuori da queste grandi finestre, è sempre incostante. Sembra indifferente a tutto ciò. Nonostante l’estate stia per nascere, ancora tutto appare umbratile, grigio, e le nuvole hanno difficoltà a riflettere l’azzurro di un cielo scontroso. Ma la natura sta rinascendo, lo sento. Quella non la puoi bloccare, quella può riprendersi ciò che l’uomo le ha tolto con la sua presenza, spesso devastante.

Dovremmo ripartire da qui, dalla naturalezza di essere umani e di problematizzare ciò che circonda. La scuola ha questo compito. Deve averlo sempre. Ed io come insegnante non posso tirarmi indietro, dovrò dare ai ragazzi le chiavi concettuali per comprendere il mondo, criticarlo, usare la parola per diventare uomini e donne consapevoli di costruire, giorno dopo giorno, il loro destino. Anche se quest’anno non è stato diverso da quello precedente e tutto appariva chiuso già dall’inizio, anche se lì fuori tutto appare immobile. No, non dovrà più accadere, mi dico.

Ripartire dai libri, dalle loro storie. Le relazioni umane sono in fondo fatte da esse. Perché la vita va raccontata e custodita dall’esempio di altre vite possibili. Quelle che spiego tutti i giorni, in un dialogo che è fatto dall’eternità del pensiero.

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