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Morire di lavoro

Morire di lavoro

Morire di lavoro. Nomi comuni, nomi di persone che cercavano di dare dignità alla loro esistenza. A quale prezzo?

Cadono come foglie autunnali dagli alberi. Si tratta di nomi comuni, nomi di persone che magari vediamo tutti i giorni e che ogni mattina, sera, notte, cercavano di dare dignità alla loro esistenza, alla loro famiglia, lavorando. Morire di lavoro. A quale prezzo? L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma quale democrazia permette ai suoi figli (perché si tratta in gran parte di giovani) di morire mentre cercano di costruire a fatica le loro vite? A che prezzo? Ha senso usare la parola democrazia davanti a una simile tragedia?

Gli ultimi caduti sul lavoro di queste ore vanno ad aumentare ancora una volta gli elenchi infiniti di chi, attraverso un mestiere, vuole ostinatamente esserci in questa vita, per lasciare qualcosa, per semplicemente essere. Un verbo ausiliare a cui dovremmo dare molta più attenzione, soprattutto in questo momento in cui l’apparire e il mostrare dettano legge alle nostre vite. Essere significa dimostrare la propria presenza con forza, in quell’agón che ci pone gli uni accanto agli altri in competizione, fino al prevalere dell’uno sull’altro. Senza violenza, ma con l’utilizzo oculato della determinazione. Una regola che il capitalismo, in molti casi, porta alle estreme conseguenze.

Non dovrebbe il lavoro avere anche questo significato? Non dovrebbe permettere ad ognuno di noi, responsabilmente, di esistere, di essere? Di porci con e rispetto agli altri nel nostro ruolo di esseri umani? Eppure si continua a morire sul lavoro come se fossimo nel peggior Ottocento. Nonostante tutte le innovazioni tecnologiche a disposizione, nonostante tutti i progressi ottenuti in campo scientifico, si muore in fabbrica, in un cantiere, nei campi agricoli, ovunque quello stesso progresso potrebbe proteggere e garantire sicurezza. Un paradosso, un’ingiustizia.

Non c’è alcuna giustificazione per tutto questo. Non bastano le parole, i messaggi di vicinanza, la retorica che si nutre di un’aspettativa svuotata da ogni sforzo concreto di cambiamento. Serve innanzitutto avere cultura del lavoro e, quando scrivo questa parola, la lego indissolubilmente ad un’altra: consapevolezza. Essere consapevoli di dover dare a questa condizione inalienabile dell’Uomo, strumenti di trasparenza, protezione, educazione. Coscienza. Al di là dei singoli contesti in cui sarà la magistratura a trarre le dovute conclusioni, al lavoro serve dare una nuova definizione che capovolga il nostro modo normale di intenderlo.

Occorre innanzitutto educare al lavoro rendendolo non più labor, fatica, sforzo inumano, ma momento fondamentale in cui realizzare pienamente ciò che si è, ciò che si ambisce a diventare. Un processo difficile, arduo, necessario. A cui tutti dobbiamo tendere. Si lavora per diventare se stessi e per dare un beneficio al prossimo, non per distruggersi o distruggerlo. Ogni morte sul lavoro è un insulto al raggiungimento di questa condizione. Non dovremmo mai dimenticarlo.

Trasformare gli strumenti che abbiamo in opportunità di crescita individuale e collettiva. Mantenere questi due orizzonti sempre accesi, in vita, cercando di calmierare la produttività fine a se stessa, di diventare anche noi bulloni di una macchina e purtroppo restarci incastrati. Lavorare non solo deve essere un diritto, un dovere, un’opportunità, ma anche un modo di guidare, nell’impegno teso al raggiungimento della felicità personale, le ragioni della vita.

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