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Dante: un esilio perenne

Riflessioni sul monumento funebre di Dante a Ravenna alla riscoperta delle radici di ogni letteratura. Un esilio perenne.

È una mattinata tranquilla di fine agosto. Le strade di Ravenna sono quasi del tutto silenziose. Molti sono ancora in ferie e la maggior parte della gente cammina a piedi o va in bicicletta, in una città elegante, raffinata come la storia che testimonia. Passeggiarci è un piacere per il corpo e per la mente che non sembrano mai stancarsi. Tutto ricorda Dante. Gli angoli delle strade sono tappezzati di sue citazioni e il profilo del poeta ti scruta guardingo in ogni sua stilizzazione grafica. Strategie di marketing per attirare i turisti? Non c’è dubbio ma avverto qualcos’altro. Qualcosa che collega Dante alla riscoperta delle radici di ogni letteratura ma che lo pone, al tempo stesso, in un esilio perenne.

Solo allora risalgono alla memoria le giornate passate in classe a spiegarlo, a far capire come i suoi versi siano ancora vivi, presenti nella società italiana come non mai. A settecento anni dalla sua morte, Dante descrive ancora bene le contraddizioni che viviamo quotidianamente, sia da italiani che da esseri umani. Inquieti, suscettibili, masochisti nell’odiare noi stessi e nel non fare nulla per cambiare questa situazione. Ed ecco che dentro di me le domande iniziano a nascere poco a poco, fino a diventare impossibili da tacere.

Domande sulle ragioni che lo avevano portato a lottare fino alla fine per trovare un patria, un luogo in cui sentirsi definitivamente a casa e che appare nei suoi versi impossibile da realizzare, lui che aveva profeticamente cercato di trovare una soluzione linguistica comune ai molteplici volgari presenti nella penisola. Un paradosso, un’assurdità eppure la sua vita è l’emblema di tutto questo. Dante verrà condannato, cacciato, costretto ad una peregrinazione continua. Posto ai margini della sua città, quella Firenze che fra Duecento e Trecento inizierà a dettare legge in ogni campo del sapere nonostante sia percorsa da superbia, invidia e avarizia, come scriverà nell’Inferno.

Dante ha profetizzato il nostro essere perennemente divisi, l’incapacità di sentirci un popolo unico, in grado di riconoscersi nel suo passato e nella sua tradizione cantando, contemporaneamente, la necessità di quest’ultima. Chissà se ne abbiamo ancora coscienza. Come la mia che si è trovata davanti a questa cappella piccola e dignitosa, simbolo di humilitas (e la vicinanza alla basilica di S. Francesco, al suo santo prediletto, sembra non casuale), circondata dal silenzio e dal verde. Qui, dove guardavo timoroso il suo interno intravedendo l’arca sepolcrale che racchiude le sue spoglie. Dall’esterno di questo edificio dal sapore neoclassico, quasi a ricordare la memoria degli antichi tanto cara al poeta e alla letteratura medievale, lessi l’epitaffio che fu scritto nel 1327, e quegli ultimi versi così tremendamente veri, reali: “patriis extorris ab oris / quem genuit parvi Florentia mater amoris”.

Esule dalla propria terra, generato da un città che gli ha dato poco amore. In poche parole, la storia di ogni persona che cerca disperatamente un futuro migliore da un’altra parte, a costo di sacrificare la sua vita. A volte la storia sembra dimenticare il passare dei secoli per diventare un eterno presente e ripresentarsi in vite lontanissime fra loro. Cosa accomuna un poeta del Trecento a coloro che attraversano il mare tutti i giorni? Cosa lo accomuna a chi semplicemente si sente straniero nella sua patria se quest’ultima non gli dà il lavoro che cerca, se lo fa sentire a disagio con le sue mancanze sociali, politiche, umane? Nulla e allo stesso tempo tutto, a dimostrazione di quanto la grande letteratura sia vita essa stessa. Di certo, Dante avrebbe meritato una sepoltura degna della sua opera ma è nella discrezione di questo piccolo tempio che la sua eterna grandezza parla ancora alle nostre coscienze.

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