Il ritiro statunitense dall’Afghanistan rappresenta un vero e proprio fallimento. Una scelta attuata goffamente e grottesca. Come uscirne degnamente?
Nelle settimane scorse, se ne sono dette tante sull’Afghanistan ed ora che il clamore dei media per il ritiro statunitense sembra essersi assopito, si avverte ancora più forte il dramma di questa nazione sempre contesa nel corso della storia. Lasciandola al suo destino, gli americani hanno ammesso una dichiarazione implicita di arrendevolezza non solo di fronte alla complicata realtà di alcune zone del mondo ma anche davanti a sé stessi. Frettolosamente, salvando il salvabile, rispondendo parzialmente alle richieste di aiuto di migliaia di persone. Un fallimento miserabile iniziato vent’anni fa. Una scelta che maturava già da tempo ma attuata goffamente in maniera, per certi aspetti, quasi grottesca.
L’Afghanistan è sempre stata una terra difficile. Lo sapevano i Sovietici negli anni Ottanta, quando si contrapposero ai mujaheddin; lo sanno gli afghani stessi divisi in contrapposizioni etniche incapaci di trovare un equilibrio fra loro. Perché? Prima di tutto a causa della storia del territorio afghano, attraversato da innumerevoli venti di conquista, dall’alternarsi di poteri monarchici e repubblicani e, ovviamente, dalla guerra iniziata contro il terrorismo dopo l’11 settembre. Per non parlare delle tensioni geopolitiche con il vicino Pakistan. Una situazione incandescente, dove basta poco per accendere la tensione.
Dopo l’attentato al World Trade Center, l’Occidente si scoprì più vulnerabile. La Seconda guerra mondiale era ormai un lontano ricordo, la Guerra Fredda aveva creato attriti senza sfociare mai in un vero e proprio conflitto internazionale, in più si era interrotta con la caduta del Muro di Berlino e niente lasciava presagire potesse accadere un evento in grado di riaccendere paure che parevano essersi addormentate. Paure legate al mantenimento della nostra stessa sopravvivenza. Eppure accadde dimostrando quanto garantire una condizione di relativa pace sia uno sforzo impegnativo e faticoso.
Da allora, gli Stati Uniti hanno deciso di scendere in campo e con essi quei paesi dell’Alleanza atlantica che parrebbero riconoscersi nei valori della democrazia e della pace. Afghanistan, Iraq, i movimenti politici legati alle cosiddette “primavere arabe”. L’Oriente diventava il laboratorio in cui cercare di introdurre i valori occidentali anche con la forza, dando inizio a conseguenti reazioni terroristiche che hanno finito per colpire il cuore stesso dell’Europa, portando terrore e morte. Una guerra frammentata e violenta, senza grandi campi di battaglia, vissuta su una crescente tensione geopolitica, dove gli obiettivi da colpire sono stati e sono in gran parte persone appartenenti alla popolazione civile.
Non esiste una civiltà migliore di un’altra, nessuno al mondo può arrogarsi il diritto di avere il monopolio di questa parola. Soprattutto non in senso politico. Il rispetto fra culture si crea attraverso il loro dialogare in cui le rispettive differenze debbano necessariamente portare ad una sintesi su valori condivisi. È così che la pace si mantiene, è così che le azioni violente vengono messe a tacere. La civiltà, semmai, è quella di coloro che in queste settimane hanno cercato di aiutare fino alla fine i civili a trovare una via d’uscita da un futuro incerto. Con spirito di sacrificio ed umanità.
Non c’è nessun vincitore in questi vent’anni. Tutti sono vittime e devono pesantemente riflettere sul loro ruolo nel mondo, nel loro stesso paese e nel consesso internazionale. Di sicuro, l’Occidente ne esce frastornato. Gli americani stanno cercando di rivolgere l’attenzione più ai problemi interni che all’esterno; mentre l’Europa dovrebbe concentrare i suoi sforzi nella creazione di un apparato di difesa comune, ben strutturato, espresso da una visione concertata della difesa dei propri confini senza lasciare da parte le azioni di solidarietà verso i popoli in difficoltà. In questo modo l’Afghanistan non rappresenterà solo il fallimento politico dell’Occidente ma anche l’occasione per un suo riscatto.
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