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L’illusione di vivere – La lezione letteraria di Pirandello

L’illusione di vivere. La lezione letteraria di Pirandello fra Ottocento e Novecento.

Alla fine dell’Ottocento, una società europea percorsa dalle luci abbaglianti della nascente modernità tecnologica, si affacciava trepidante sul nuovo secolo che stava per nascere. Intellettuali acuti come Pirandello lo avvertirono subito. La ricerca scientifica avanzava galoppante e la fiducia nel progresso sembrava non poter essere scalfita. Davanti a quest’avanzare prepotente, l’uomo si rimise in discussione fin nel profondo. Smembrandosi, ricomponendosi, cercando di capire le ragioni della sua infelicità malgrado tutto apparisse meraviglioso sotto le nuove scintille dello sviluppo.

In Italia sono gli anni di Svevo, D’Annunzio, Verga. Scrittori che cercano di dare una risposta personale a questo disagio dell’essere umano, ognuno con un suo particolare punto di vista. Il romanzo si scompone per dare voce ai pensieri di una coscienza incapace di trovare un posto nella storia. Sono anche gli anni di Pirandello, la cui visione del mondo smaschererà le ipocrisie con cui cerchiamo disperatamente di costruire un’esistenza dotata di senso.

Il delirio e l’incomunicabilità

La vita di Pirandello è sempre stata un continuo interrogarsi sul perché dell’agire umano. A partire dalla vicenda dolorosa della moglie: un rapporto tenero ed estremo da cui l’autore siciliano maturò un’idea tragica della realtà, dove c’è poco spazio per la speranza. La malattia mentale, il vuoto affettivo successivo ad esso, l’assurdità di una parola che si nutre di una rabbia silenziosa, quella che doveva riempire i giorni passati accanto a questa donna amata nel profondo, persa nei suoi bui psichici.

Tutti noi indossiamo una maschera e siamo ingabbiati in situazioni che non ci appartengono sebbene dobbiamo portarle avanti, cercare di prenderne gli aspetti positivi, limitare i danni del loro irragionevole evolversi. Lo sapevano Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda. Due uomini che cercano di scappare da questa prigione ma sono destinati a fallire. Un po’ come i protagonisti dei romanzi di D’Annunzio, sebbene imbevuti di un edonismo sfacciato, estremo. Tutti sono dei perdenti, inetti, incapaci di affermare pienamente se stessi. Tutti non sanno come attuare concretamente i loro sogni.

Ma c’è un aspetto in più in Pirandello. La disillusione e la fragilità emotiva sono lenite dalla forza dell’umorismo. Amaro, tragico. Non c’è dubbio. Una risata che ci fa capire quanto il Belluca de “Il treno ha fischiato…” non sia realmente impazzito; al contrario, nella sua follia ritrova uno spazio di libertà per essere se stesso seppur in modo ridicolo e buffo. Belluca non può far altro che tenere per sé questa straziante verità perché gli altri non la capiscono, non possono concepirla in quanto incapaci di dare essi stessi, alla loro vita, una ragione che non sia quella di un’apparente normalità.

Mettersi in scena

Sullo sfondo, un mondo che sta per rovinarsi con i totalitarismi e due guerre atroci dopo le quali l’ordine mondiale non sarà più come prima. Pirandello avverte la stanchezza di un uomo che non sa imparare a vivere se non indossando ciò che gli altri impongono. Non ha una coscienza solida, non ha un carattere riconoscibile. Si perde in migliaia di sfumature inutili e accessorie gestito da un’ironia che rende più sopportabile la propria sorte. In questo palcoscenico di inganni e colpi di scena è l’umorismo il piccolo spazio in cui dirsi pienamente liberi.

Solo così le catene dell’ipocrisia si spezzano, solo così si inizia lentamente a vivere.

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