Il 25 aprile è una data divisiva, simbolo, il più delle volte, di un finto buonismo utile solo alle coscienze di chi lo produce. Quale significato conservarne?
Bandiere rosse, stendardi arcobaleno, fazzoletti al collo, “Bella ciao” cantata a squarciagola e resa più moderna da qualche base trap o testi politically correct. Il 25 aprile come emblema dei deliri di onnipotenza di quei radical che giocano con la storia e tentano di cancellarla a loro piacimento. La retorica progressista innalzata a vessillo di una parte politica, sempre più espressione dei poteri forti che delle classi sociali in difficoltà. Incredibile come in Italia tutto ciò sia sempre più evidente. Narrazione pseudostorica di un finto buonismo utile solo alle coscienze di chi lo produce.
Quale sarebbe allora la narrazione da preservare? Cosa tramandare alla memoria di chi non visse quei momenti così tragici? La risposta non è facile, soprattutto in un Paese che fa a pugni con il suo passato. Maltrattato, vilipeso, gettato nell’oblio più tenebroso quando non si concede alla falsa vulgata dei buoni sentimenti e della solidarietà di facciata. La cosiddetta Liberazione, termine insidioso, in cui è nascosto un significato che cerca di sovvertire il naturale svolgersi dei fatti, definisce il 25 aprile come la vittoria della lotta partigiana (specialmente quella socialcomunista) sul nazismo e sul fascismo. Spiegazione parziale, di comodo, non storicamente obiettiva perché quella stessa lotta fu anche compiuta da cattolici, liberali, repubblicani etc.
La Resistenza è stata importante. Senza il sacrificio di quei combattenti, l’Italia non sarebbe riuscita a costruire la sua democrazia ma non va posta sugli allori né esaltata a priori. La storiografia di Pavone, le indagini acute e antiretoriche di Pansa ridimensionano l’impatto di quella guerra, considerando le sue evidenti contraddizioni. Sì trattò di una sanguinosa lotta fratricida in cui le vittime e i carnefici si confusero fino a mischiarsi inesorabilmente. La Storia non vede giusti o sbagliati ma dà, attraverso le atrocità dei fatti che testimonia, le basi affinché non possano mai più verificarsi. Il 25 aprile ne è una dimostrazione lampante.
Data divisiva, data in cui i cosiddetti “migliori” sono sempre pronti ad insultare chi non la pensa come loro o semplicemente cerca di conservare obiettività prima di dare un giudizio definitivo. La produzione letteraria di Fenoglio ne è una prova e con lui quella di tutti gli intellettuali che fin da subito avvertirono il vuoto atroce che la guerra aveva portato nelle coscienze della gente, circondata da polvere e macerie. Bisognerebbe analizzare la Resistenza in termini di libertà, concetto più concreto, sempre in bilico ma aderente alla storicità degli eventi. Una libertà a cui contribuirono uomini, donne, soldati italiani e angloamericani, partigiani onesti e coraggiosi, preti. Tutti accomunati dalla precisa volontà di rendere l’Italia finalmente una nazione.
Ci riuscirono? Questa è la domanda fondamentale. Un Paese riconosce se stesso dalle date fondamentali che lo hanno reso tale, dai riti civili ad esse connesse, dal sentirsi parte di una vera comunità. Il 25 aprile è stato un momento sicuramente importante ma non edificante. Semmai ha acuito le lacerazioni sociali venute successivamente, portando a violente contrapposizioni senza mai risolverle. Probabilmente solo il 17 marzo 1861 mantiene in potenza le caratteristiche necessarie per descrivere l’Italia come uno Stato che, da nord a sud, ha conservato una certa coesione. Ma anche in questo caso le incognite sono molte e i dubbi continuano a permanere. Non rimane che studiare, informarsi, cercare criticamente di ridimensionare. Esaltare quando ci sono delle prove che permettano di farlo. Prassi più facile a dirsi che a farsi in una società che sembra aver smarrito gli strumenti minimi per sviluppare un pensiero complesso.
Mi auguro che il 25 aprile sia davvero un momento che appartenga a tutti coloro in grado di dirsi italiani. Nel bene e nel male.
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