Narrativa straniera
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“La lingua salvata” di Elias Canetti: una lettura

Feroce come l’incedere di un felino verso la preda, tenero come lo sguardo addormentato di un bambino, colto come qualsiasi museo che contenga in sé le opere più importanti di un’epoca. Può un libro come “La lingua salvata” essere tutto questo? La riposta è sì. In che modo? Grazie alla devastante potenza del linguaggio.

Ed è proprio su questa che vorrei soffermarmi. Con “La lingua salvata” Canetti sembra appropriarsi, quasi fosse un rito misterico, del fuoco antico che pervase la parola dei primi uomini sulla Terra. Immagino quel linguaggio irruente, schietto nel “dire” il mondo, nel farlo proprio. La stessa spontanea bellezza che pervade Canetti mentre racconta la biografia della sua infanzia.

Una lingua “salvata” che vediamo nascere insieme alla sua crescita compiendo i primi passi di un’esistenza che si scontra, fin da subito, con la morte. Canetti perde il padre troppo presto. Da allora, ogni momento della sua vita, sarà scandito da questa mancanza creando un linguaggio che dall’infanzia si nutre dei suoi affetti più importanti. Oltre a quest’uomo mai del tutto scomparso, ruolo fondamentale è quello della madre, donna onnipresente, tenace, spietata, che tiene insieme i brandelli della sua famiglia e che gli ha fatto capire quanto tra vivere e scrivere non ci sia differenza.

“La lingua salvata” sprigiona una forza letteraria incredibile. Ti apre all’intimità, alla storia, alla sete di cultura non solo di uomo, ma di un’epoca. Il linguaggio e la parola ne sono il perno assoluto. Il fine ultimo di una libertà estrema, quasi vicina al sublime. Come il rapporto fra lo scrittore e il sapere. Fatto di impegno, dedizione, sospetto, amore per una cultura nata dalle ceneri di una guerra tremenda dopo la quale non sembrava esserci spazio per nessuna rinascita.

Lo scontro con la realtà. Il piccolo Elias, ne “La lingua salvata” deve capire che i libri non sono niente se non si sbatte contro il dolore, quello vero, e con la fatica e le bestemmie di farsi una vita, di sopravvivere al lutto e ai propri limiti. Di essere se stessi e affrontare il mondo. Senza fronzoli, con carattere, cadendo sotto le sue sassate e riprendendo a camminare. Zoppicando? Non importa. Ci sarà la cultura a proteggerti, la parola che si fa racconto di sé a cominciare dalla scuola.

Il luogo in cui il sapere costruisce le coscienze per gettarle nella vita con le opportune difese. Canetti vive la passione per lo studio, arde per esso, ne è continuamente assetato. Ha professori diversissimi e di ognuno serba un ricordo, di altri la sua dimenticanza. A volte l’oblio ha la stessa bontà di un farmaco. Il linguaggio è il fulcro dell’insegnamento e del rinnegamento dei suoi valori di convivenza civile. Come quando inizia a serpeggiare l’antisemitismo anche fra i suoi compagni. Lì la parola diventa tagliola, coltello, bastone. Lì, dal silenzio della vergogna, può rinascere verso l’amore.

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